Premessa: l’ultimo gioco dura 8 minuti con quattro match-point annullati
Goran Ivanisevic era un perdente di successo. Giocava con quello che tecnicamente si chiama “serve and volley”: praticamente si punta molto sul servizio, forzandolo in posizione e potenza per mettere in difficoltà l’avversario. Dopo la battuta si va immediatamente a rete per fare il punto. Quantomeno questa è l’intenzione. E’ un gioco che prevede velocità e potenza, oggi non esiste più. O quantomeno è ritenuto quasi antiquato. Parliamo di un tennis dove i picchiatori da fondo campo erano visti come degli stupratori dello spettacolo (oggi l’attuale numero 1 del circuito ATP, tal Novak Djokovic, rientra nella categoria degli stupratori). E’ un gioco che esalta l’erba e il suo luogo sacro, cioè Wimbledon. Mi piacerebbe andare a Wimbledon, forse vedere la finale sul centrale sarebbe troppo ma un giro non ci starebbe male. Anche solo per rievocare lo spirito della Crazy Gang…
Anche Patrick Rafter era un perdente di successo. Qualcosa nella sua carriera di grande l’aveva ottenuto (2 Slam, è stato numero 1 del circuito per una settimana) ma aveva perso molte volte. Era la bestia nera di Andre Agassi, prima del mostruoso Federer-Nadal del 2008 gli incontri più cruenti della storia di Wimbledon erano stati giocati da loro due. Anche a lui piaceva il tennis veloce, si esaltava nel “serve and volley”. A pensarci è quasi separato alla nascita con Ivanisevic: le loro sono due vite parallele che sembrano uscite da un film. Per rimanere nel gergo britannico una “sliding doors” del tennis.
In un giorno di Luglio due tennisti gemelli, quasi coetanei (c’è solo un anno di differenza), due ex-talenti prodigio traditi dal fisico ed ormai in ribasso (Ivanisevic fu ammesso a quel Wimbledon con una wild card!) si confrontano in quella che è l’ultima chance della loro carriera. L’ultima grande speranza di risorgere dalle ceneri in cui erano cadute. Rafter arriva in finale dopo un’altra guerra contro Agassi, la seconda di fila, ed il talento inespresso Enqvist. Ivanisevic elimina Henman in semifinale ma soprattutto ai quarti Marat Safin. A detta di un mio amico “il più grande pazzo mai visto su un campo da tennis”: personalmente di lui ricordo dei fotogrammi di un incontro contro Federer dove in alcuni momenti umiliò lo svizzero in un periodo dove sembrava impossibile anche solo confrontarsi con lui. In questa storia la locura gioca un ruolo decisivo perché bisogna essere abbastanza pazzi per pensare una finale simile. O anche solo arrivarci. Quando entrano in campo sanno già cos’accadrà: non chi vince ma come si giocherà. Nella maniera più violenta possibile, alla disperata e forzando al limite della sopportazione umana i propri servizi. Una finale così atipica non si era mai vista. E neanche un pubblico così, più vicino al tifo da stadio che all’aplomb londinese. Chi vince potrà illudersi ancora, un’ultima dose di morfina prima del collasso finale. Chi perde sarà condannato all’oblio. Tre ore di battaglia prima della sentenza finale, della condanna a morte dettata da un mondo dove a 30 anni sei già in ribasso. E torniamo alla premessa, a quegli 8 minuti e ai servizi forzati che si frappongono tra Ivanisevic e la gloria… che alla fine arriva. Ma entrambi hanno capito che il loro destino si è consumato, è già scritto: la Storia li ammette giusto nell’attimo prima che li possa escludere
E allora ci si può chiedere: perché Ivanisevic è felice se Wimbledon è l’ultimo minuto di gloria? Non è felice per sé. E’ felice perché è un croato. E’ felice perché per la prima volta un croato ha vinto qualcosa di grande, con la propria bandiera e la propria patria. Ero in Croazia in quei giorni, avevo 12 anni. Mi ricordo la gente incollata davanti alla TV, le urla e le lacrime. Non era semplicemente uno slam vinto ma era la rivincita di un popolo. Per la prima volta la Croazia sportiva poteva alzare la testa dopo che per due volte ha dovuto abbassarla sul più bello. Ad un passo dalla leggenda. La prima volta fu nel 1993, su un autostrada tedesca, quando morì il più grande atleta che la Croazia abbia espresso e forse esprimerà: Drazen Petrovic. E’ come nell’immediato dopoguerra italiano fosse morto Fausto Coppi. Ti saresti sentito, senza speranze. Drazen Petrovic era talmente carismatico che non potevi subire il suo fascino, figuriamoci chi in lui vedeva l’alfiere di un popolo martoriato dalla morte e dalla violenza. La seconda volta fu quando Liliam Thuram spense il sogno di una nazionale fortissima, che comprendeva campioni incredibili. Tutti in una sola squadra. Per una volta sola, radunati a scrivere la leggenda. Ma condannati nonostante Davor Suker capocannoniere. Condannati nonostante Boban, Prosinecki, Stanic, Asanovic, Jarni. Uno solo di questi farebbe la differenza. E giocavano tutti insieme. Stavolta no, stavolta uno di noi ce l’ha fatta. E’ riuscito a rompere la maledizione e far capire al mondo che anche i croati possono vincere.